Biografia di Gilbert Kruft
di Fabiana Maiorano
Gilbert Kruft è consapevole di essere uno scultore sin dalla giovane età. Autore di oltre sessanta sculture in bronzo, la sua vita è caratterizzata da un’intensa peregrinazione tra Germania, Francia, Svizzera e Italia. Nato a Colonia, si stabilisce a Bologna dalla seconda metà degli anni’70, città che ha visto nascere tutte le opere della Recherche Humaine, Il nuovo canto degli Dei e l’Erotica, oltre alle Forme del fuoco (una raccolta di complementi d’arredo che l’artista era solito chiamare maccheroni, perchè, in quanto oggetti di arredo, costituivano la sua fonte di reddito)
Giovinezza e formazione
Gilbert Kruft nasce il 21 luglio 1939 a Colonia, in un’Europa segnata dal progetto espansionistico tedesco che avrebbe portato di lì a poco allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1° settembre 1939).
Con l’avanzare del conflitto, Gilbert trascorre gli anni della primissima infanzia insieme ai fratelli nelle kinderheim costruite lontane dai centri cittadini, per poi far ritorno nel 1945 ad una Colonia duramente provata dai bombardamenti inglesi.
Nascendo in una famiglia borghese che lo avvia agli studi classici e ispirato da artisti come Rodin e Brancusi, Gilbert Kruft sin dall’adolescenza esprime il desiderio di diventare scultore del bronzo; tuttavia il padre conservatore, poco fiducioso, lo esorta a seguire il corso di oreficeria presso la Scuola di Arte e Artigianato di Colonia.
Mal che ti vada come scultore, almeno impari una professione e avrai un lavoro! – mi ripeté mio padre. Col tempo ho apprezzato la scelta di seguire il corso da orafo: mi è stato utile apprendere la cesellatura che ora adopero per le mie sculture.
Successivamente, nella seconda metà degli anni ‘50 si trasferisce a Stoccarda per studiare arte e nel 1961 viene ammesso all’Accademia delle Belle Arti di Amburgo, diventando uno dei primi allievi di Eduardo Paolozzi.
La Pop Art e l’Accademia di Amburgo
Gli anni ’60 portano una ventata di novità in campo artistico rispetto al ventennio fascista e al primo dopoguerra, a cominciare dalla messa in discussione dell’intero sistema culturale: gli artisti si interrogano sul proprio ruolo rispetto ad una società in continuo cambiamento e tra “un dentro e fuori dal quadro” ricercano nuovi mezzi di espressione. Ciò che ne deriva è la nascita di diverse correnti artistiche, le cosiddette neoavanguardie, caratterizzate da una ripresa degli ideali delle avanguardie.
Fioriscono il New Dada e il Nouveau Réalisme con il ritrovato gusto per l’oggetto quotidiano, ma la più importante delle svolte sopraggiunge con la Popular Art (pop dalla definizione di Lowrence Alloway), la quale “si inscrive perfettamente nella cultura nascente degli anni ‘60”, influenzandola notevolmente. Tra l’artista che diviene oggetto-soggetto dell’opera (body art, performance, happening) e i ready made, con l’ondata pop le arti visive convergono verso nuove forme espressive prese in prestito da quelle della comunicazione di massa, rivolgendo l’attenzione verso la vita quotidiana dell’uomo contemporaneo, sempre più legato a quel mondo artificiale delle produzioni in serie.
Con questa premessa risulta quasi immediato l’accostamento della Pop Art ad Andy Warhol e, in generale, alla corrente artistica americana, tuttavia i precursori dell’arte pop sono gli inglesi Richard Hamilton ed Eduardo Paolozzi, anticipatore del movimento già negli anni ’40 con il suo collage I was a rich man’s plaything.
Edoardo Paolozzi, nato a Leith (Edimburgo) nel 1924, è una delle figure di spicco dell’Indipendent Group londinese e le sue lezioni all’Accademia di Amburgo sono fortemente proficue per il giovane Kruft, il quale sperimenta un’arte che si può “fare con qualsiasi cosa”, dai collages agli assemblaggi di objets trouvés.
Era un tempo affascinante: il lungo e disciplinato processo d’una scultura si poteva dimenticare. Questa era già sdraiata a pezzi nel mucchio dei rottami nei cantieri navali, con forme e strutture affascinanti e quasi gratis: bastava cercare e trovare, dopodiché si doveva solo segare, piegare e saldare per realizzare una scultura veramente spettacolare.
Una volta fatte proprie le pratiche apprese in Accademia, Gilbert le rielabora in strutture anatomiche, nelle quali ritrova la ricchezza delle forme che gli permettono qualsiasi combinazione desiderata,
“con una naturalezza sorprendente nell’espressione corporea accompagnata dalla precisione della forma pura, che mi permetteva un elemento essenziale nella scultura: l’estetica”.
Difatti, dalle sculture accademiche si percepisce quella che sarà poi la sintesi formale della sua ricerca: un’armoniosa bipolarità di maschile e femminile.
Questo suo curioso processo di sintesi, non è da confondersi con l’astrazione di un corpo, bensì con la formazione di nuove anatomie: una nuova lingua corporea che gli permette di interessarsi alla parte immateriale dell’uomo.
La Recherche Humaine è la grande opera scultorea di Gilbert Kruft: un’intensa raccolta di bronzi che esplorano l’essenza umana nelle sue molteplici sfaccettature.
Il periodo meditativo a Causse de Sauveterre
Terminati gli studi, nel 1962 Gilbert avrebbe potuto lasciarsi travolgere dalle onde agitate – ma invitanti – dei nascenti movimenti artistici, nuotando tra le correnti e adattando la sua creatività al nascente sistema dell’arte. A trattenerlo è una interiore ed impellente domanda sul senso dell’arte.
In quel vuoto d’orientamento avevo bisogno di distacco, avevo bisogno di quiete per elaborare ciò che avevo studiato e imparato in tanti anni d’accademia, per trovare risposte valide per me.
Questo bisogno di distacco lo spinge ad allontanarsi dagli ambienti accademici e decide, dunque, di partire, intraprendendo in bicicletta un viaggio che dalla Germania lo conduce nel sud della Francia, a Champerboux, dove si ritira in un eremo a
Sauveterre, dove si confronta con l’inaspettato, mai provato, silenzio del caratteristico deserto di pietre (Causse de Sauveterre), un silenzio che nasce dal vento, che diventa in Provenza il Mistral. Questa immersione nella natura, accompagnata da uno stile di vita bucolico, condotto solo da poche famiglie pastorali della zona, permette a Gilbert di misurarsi con una dimensione diversa che lo porta a meditare sulla domanda che l’ha spinto fin lì.
All’inizio solo intuitivamente ma con gli anni, in maniera sempre più cosciente capivo l’incomparabile chance che mi si offriva. La chiarezza e la singolarità di questa natura costringono ciascuno a una risposta proporzionata, davanti a sé stesso, per sopravvivere. Una scuola dura, ma istruttiva e proficua. Il silenzio del paese della Causse, all’inizio affascinante ma poi anche spaventoso, diventa, se si trova la risposta adeguata in sé, un’amante indispensabile, perché mi conduce sempre a me stesso. (…) In lei mi ritrovo, in lei mi rigenero. Sono merito di questa amante insolita le mie sculture e infine il mio ego, perché prima di prendere decisioni importanti nel lavoro artistico, come nella vita privata, la ricerco e la lascio con occhi aperti.
Lasciatosi alle spalle un notevole bagaglio culturale, è attraverso il silenzio e la meditazione che Kruft matura il suo lavoro scultoreo, arrivando a risolvere la questione del senso dell’arte in un punto elementare: rendere visibile l’immateriale, lo spirituale. Giunge a questa pretesa essenziale con un respiro liberatorio, svincolandosi dalle esigenze dell’arte e lasciando germogliare le basi spirituali della sua tematica principale: la Recherche Humaine.
Una volta approfonditi gli studi dedicati alla ricerca filosofica e ai temi del suo lavoro artistico, Gilbert viaggia spesso in Italia, in particolare a Roma, Firenze e Napoli. Nel 1968 si trasferisce a Lugano, incontra Sandra, sua moglie, e lavora come accompagnatore culturale per un’agenzia di viaggi tedesca.
Bologna e il sodalizio con la Fonderia Venturi
Durante uno dei suoi soggiorni in Italia, a Bologna Gilbert conosce Gianpaolo Venturi “con il quale stabilisce un proficuo rapporto di collaborazione nella realizzazione delle opere in bronzo”; decide quindi di stabilire la sua residenza nella città emiliana nel 1973.
Fin dal suo arrivo a Bologna intraprende un cammino concentrato sull’uomo inteso come oggetto e soggetto di studio, attraverso un processo di sintesi che, adottando le parole della storica dell’arte Matelda Buscaroli, “dal caos iniziale dell’evento produce un lucido e chiaro concetto che costituisce la visualizzazione concreta del processo mentale dell’artista”. La scultura intitolata Piazza Maggiore è un chiaro esempio di ciò: l’artista deve aver assistito ad uno dei tanti cortei che in quel periodo (gli anni di piombo) si snodavano per le vie cittadine, ricavandone un’opera sintetica di protesta.
La tecnica della fusione a cera persa
Abile artigiano e fonditore, si reca personalmente in fonderia dove dà vita alle sue sculture con la tecnica della fusione a cera persa, tra le più antiche lavorazioni ideate dall’uomo:
L’artista modella la scultura o direttamente in cera oppure in altri materiali; in quest’ultimo caso la cera, copia fedele dell’originale, viene ricavata da un calco realizzato sul modello (Kruft era solito lavorare in gesso prima della fusione). La cera ottenuta viene rivestita da una materia refrattaria che le deve aderire perfettamente e che dovrà conservare l’impronta in negativo. L’insieme di cera e refrattario è quindi portato ad alta temperatura in un forno fino alla completa volatilizzazione della cera (da cui la definizione cera persa). Il metallo fuso viene colato nella cavità prodotta dalla scomparsa della cera. La scultura in bronzo è quindi liberata dal refrattario, rifinita e patinata.
Dopo la morte di Venturi avvenuta nel 1979, Gilbert intensifica i rapporti di lavoro con la fonderia, avviando dal 1987 la produzione della collezione delle Forme del Fuoco: complementi d’arredo unici nella loro originalità, studiati per lungo tempo dall’artista con lo scopo di superare la tradizionale barriera tra scultura e grande pubblico. Da usare ogni giorno per la loro praticità, orologi, lampade, fermalibri, portafiori, etc., esprimono a pieno l’eleganza della mano di Kruft, evidente dalla lavorazione del vetro, dalle rifiniture e dalla cura per i dettagli.
L’artista dà a questi oggetti il giocoso soprannome di “maccheroni”, perchè gli procuravano “da mangiare”, essendo economicamente più appetibili e facilmente vendibili rispetto alle altre sculture.